Tag Archives: stagisti

Di nome ma non di fatto

27 Mar

Giorni fa vi ho beccato con le mani nelle ostriche. Oddio, non lo so, in realtà, se ci fossero pure quelle. Ma lo champagne sì. Lo champagne c’era eccome. Ve l’ha portato il distinto cameriere del locale a fianco, direttamente in redazione. Se ne stava tutto impettito, lui, con il cestello pieno. Pieno di champagne, appunto, e di ghiaccio. Tanto ghiaccio. E bicchieri, tanti bicchieri, sul vassoio che reggeva con attenzione senza rinunciare mai alla sua posa impettita. La forma è importante, già. Ma la sostanza, a casa mia, lo è molto di più. La sostanza è che vi siete fatti portare in redazione una bottiglia di champagne – con tanto ghiaccio e tanti bicchieri-. La sostanza è che io passavo di lì proprio in quell’istante. Le mie pupille sono inciampate per caso sul petto impettito del ragazzo-cameriere che ve l’ha consegnato e probabilmente servito. Me ne stavo lì, a guardare la scena. E a pensare l’inevitabile. A pensare quanto quella stessa scena fosse un tremendo e immorale schiaffo alla crisi. Non tanto a quella economica su scala globale, ma a quella di un settore che non agonizza. E’ già in coma.

Quanto li pagate i vostri collaboratori? Ma soprattutto, li pagate? E quanti stagisti avete? Quanti redattori avete mandato a casa negli ultimi anni? Quanti tagli avete fatto per riuscire a sopravvivere, voi e il vostro giornaletto di parte? A quante bocche avete tolto il pane, per riempire le vostre di pregiato e bollicinante champagne?

Vedete, questo post rischia di essere una bufala colossale. Ci ho riflettuto per giorni prima di pubblicarlo. La verità è che io non lo so il motivo di quel vostro brindisi. Magari era il compleanno di qualcuno. Magari qualche caporedattore sta per diventare papà. Magari se ne va in pensione un veterano o, meglio ancora, avete assunto venti persone tutte in un colpo e avete giustamente pensato di festeggiare. E’ possibile che i vostri conti siano a posto – oggi come oggi non sarebbe poco – e di fronte al bilancio con il segno più abbiate deciso di dedicare un dignitoso e meritato prosit a tutta la vicenda. Vedete, queste sono tutte le possibili verità. Queste, insieme a tante altre che ora non mi vengono in mente. Ma poi è arrivata la prima pagina di oggi. Poi è arrivata lei e ho deciso di fregarmene di tutte queste stramaledette opzioni. Ho capito che – a prescindere dalle bollicine che ingurgitate – non c’è rispetto in quello che fate. E non vedo perché io debba farvi sconti. Non vedo perché io debba avere rispetto per voi.

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E’ anche per colpa di gente come voi se questo mestiere non ha più una dignità.

Chissà cosa farò tra dieci anni

16 Nov

Ho appena rinnovato la carta d’identità. E sono stato ottimista. Molto ottimista.

Chissà cosa farò tra dieci anni

E no, non mi riferisco soltanto all’altezza.

Politically uncorrect

25 Ott

E i sogni non contano più. Qua siamo tutti pollastri da spennare. Qualche volta, poi, capita pure che si lavori. Ma solo qualche volta, eh. Si lavora così, come pennuti in batteria. Il tacchino glugluglù, il gallo co.co.prò. E il pulcino Pio, il pulcino Pio.

Però è tutta colpa nostra. Dovremmo accontentarci, noi. Siamo macchine, mica anime infilate dentro dei corpi. Siamo giovanotti da codice binario. O così o Pomì. E vaffanculo ai sogni. Che no, non contano più un cazzo. Non più di certi contratti. Patti col diavolo, in un sistema in cui i ministri di mestiere fanno gli ammazza-speranze. Certe parole sono prive di rispetto. E certa gente è buona soltanto a fare manovre. Tutte rigorosamente contromano.

Apocalypse Now

4 Ott

I Maya sono cecchini con il mirino di precisione. Altro che fine del mondo. Quei bastardi tornati d’attualità direttamente dal passato sanno bene contro chi rivolgere le loro fottute profezie. Sanno benissimo a chi portare iella. L’apocalisse è una cosa seria, perciò evitiamo di scherzare. Evitiamo di dire cazzate: il giorno del giudizio sta arrivando davvero. Ma non sarà per tutti. L’obiettivo di quel cazzo di mirino siamo noi giornalisti, talmente prossimi all’estinzione che in confronto i panda sono i cinesi della Terra (in senso demografico, non per le origini). Ogni giorno se ne sentono di cotte e di crude, altro che Clerici, Parodi e tutto il loro ricettario per aspiranti obesi.

Io sono fortunato. Io ho un contratto che per ora non mi fa vedere la luce oltre la fine del 2012, ma almeno ce l’ho. Intorno a me c’è un mondo che muore, porca mayala. I cronisti sono sempre di più, i posti di lavoro, invece, sono sempre di meno. Il problema, poi, è che spesso ci si piega alle logiche imposte da un mercato che con la dignità dell’uomo (e della donna) ci fa al massimo i gargarismi. E non vi dico da dove. Oggi molti aspiranti giornalisti scrivono per visibilità. Molti li contestano, di certo a ragione. Io però li capisco. Sarà perché l’ho fatto anche io. Ho scritto per giornaletti e sitarelli che tutt’al più con il mio conto in banca hanno giocato al ribasso (c’erano pur sempre da pagare internet e la corrente per tenere acceso il pc). Ma in un questo Paese di coglioni c’è ancora chi i coglioni sa quando è ora di tirarli fuori. Gente come Gaetano Gorgoni. Perché il mondo ha sempre bisogno di eroi. Pure mentre muore.

E allora tutti stagisti

30 Ago

Se tutti facessero così si creerebbe improvvisamente un’intera generazione di ricchi. Io stesso avrei diritto a ben quattro eredità. Dite che De Benedetti sarebbe d’accordo?!

Lo scoop del secolo

24 Lug

Non so cosa mi faccia incazzare di più. Se la fantasia che latita oppure la colossale scoperta di acqua calda. Una cosa è certa: non se n’era accorto nessuno. A parte tutti.

Disoccupato

14 Lug

Mi son fatto prendere dall’ansia. Stavo mangiando le mie penne condite con pendolini (“pachini” per i romani) congelati, quando mi è venuta la smania di andare al centro per l’impiego per rinnovare il mio stato di disoccupazione. Va fatto ogni tre mesi. Me ne sono scordato per anni, e l’ultima volta sono rimasto fregato perché mi sarebbe servito per un bando (poi non andato a buon fine, ma per altri motivi) che attribuiva un certo punteggio in graduatoria in base al periodo di inattività.

Il fatto è che in settimana ho firmato il mio primo contratto. Il mio primo vero contratto. Che va oltre la semplice collaborazione. Ancora non ci credo. Noi cronisti non siano abituati a queste cose. Non siamo abituati a lavorare. Non per soldi, perlomeno.

Faccio come Bart Simpson

11 Mag

BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
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BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
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BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA
BIN LADEN NON E’ STATO TROVATO IN UNA GROTTA

 

nonsonopazzo

9 Mag

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La storia per caso

11 Apr

Un’insalata mezza greca, che però ho provveduto a mangiare per intero. L’altra mezza l’ho scordata, che di quel giorno ho ben altre cose da tenere a mente. Villa Pamphili, Roma. Uno dei posti più belli che abbia mai visto, e questo forse dimostra che non ne ho visti poi tanti. Ma quel che è bello è bello. Un polmone verde dentro l’immenso grigio della città della storia, in una giornata che oggi mi torna in testa tra la nebbia del mio fitto pensare.

I miei genitori erano venuti a trovarmi durante uno stage, forse il più importante per il prestigio della testata. Io ho la memoria corta e il naso altrettanto, altrimenti starei qui a spacciarmi per una banca dati ambulante. Invece no. Né banca dati né banca date. Più che il fosforo, il burro. Tutto mi scivola via. Per questo non ricordo quando è stato il giorno delle insalate mezze greche. Il giorno in cui ho pranzato a un metro e mezzo da Miriam Mafai.

Idea.
Grande idea.
Sono un genio.
Sono passati quasi due anni. Sì. Esatto. Me l’ha appena detto il mio curriculum, in cui ho volpescamente incluso quel mio stage da sventolare ai quattro venti.

Io quella donna proprio non la riconoscevo. E il motivo è semplice: non la conoscevo affatto. Il suo nome se ne stava nascosto nei meandri della mia nebbia cerebrale, ma il suo volto mi era del tutto indifferente. Vedevo una signora presumibilmente sveglia a discapito degli anni. Tutto qui. Per me non c’era nient’altro da vedere. Mio padre, invece, sa tutto di tutti, e quando non sa fa finta di sapere. Questa volta, però, sapeva davvero. “Kronny (no no, non mi chiama veramente così), guarda chi c’è. Sai chi è quella?”, mi ha chiesto. Prima di ostentare il suo sapere verifica sempre quanto ne sanno gli altri. Così, tanto per umiliarli. “No. Chi è?”, gli ho risposto io, abituato ma non troppo al suo modus avvilendi. “E’ Miriam Maffai. Quella scrive per Repubblica da tanti anni”. E dire che lo stage lo stavo facendo proprio lì.

Oggi ripenso a quel giorno e mi sembra tutto un po’ sfumato. Ho scattato diverse foto, i ricordi più nitidi che ho. Stavo dentro a quel polmone verde, vicino a Monteverde (dove mio nonno andava a vendere le uova, cosa che oggi ci racconta un giorno sì e l’altro pure). Ruminavo insalata greca (e verde) e indossavo una polo. Una polo verde. Ci mancava solo Bossi in lacrime ed eravamo al completo. Davanti a quel monumento al giornalismo ho fatto finta di leggere proprio il “suo” quotidiano, che mio padre compra tutti i giorni ormai da un paio di vite. Però adesso Miriam non c’è più. Di lei restano la penna più pungente della spada, gli editoriali rossovestiti, gli amori a scoppio ritardato. E la passione viscerale per le inchieste, al punto da preferirle agli uomini. O così diceva. A me non rimane che la nebbia di quel giorno di sole, il ricordo dai contorni contorti di quel pezzo di storia incontrato per caso nella città della storia.

Rosso relativo

29 Dic

Ghiro ripieno. No, non è il mio menu di Capodanno, ma l’attacco, l’incipit, della mia biografia più recente. Sono fermo, tranquillo, come un semaforo. Ora c’è il rosso. Perciò sono fermo, sì. Ma non con la mente, che quella ferma non lo è mai. Con il corpo resto in panciolle. Aspetto. Temporeggio. Ho il sonno facile. Mangio come un porco. Un ghiro ripieno, sì.

Oggi una prima sveglia. Mi è arrivata una lettera dall’esimio Ordine regionale. Non me l’hanno spedita per farmi gli auguri. Dentro non c’erano biglietti rossi vestiti a festa, ma moniti per mandare un po’ più in rosso il mio conto bancario. E io sto fermo. Resto in panciolle, sì, ma non con la mente. Che quella, no, non è ferma mai. Penso e ripenso al senso di tutto questo. E non lo trovo. So che qualcosa è cambiato. Monti ha smosso mari e suoi omonimi. Gli Ordini non sono più gli stessi. Credo. Mi era giunta voce che quello dei giornalisti non abbia più nemmeno il potere di sanzionare i suoi iscritti in caso di comportamento inadeguato (passatemi l’eufemismo). Non ne sono sicuro, eh. Un ghiro ripieno resta fedele a se stesso, bloccato nel suo torpore finto-festivo. S’ingozza ma non si schioda. E, paradosso dei paradossi, nemmeno s’informa. Nemmeno se informa di professione. Nemmeno se certe cose lo toccano da vicino.

Ammetto le mie inadempienze (perdonatemi il parolone, prometto di non usarne più fino al prossim’anno), ma l’aumento della quota annuale richiesta all’Ordine mi sa comunque una forzatura. Anche se non so bene come stanno le cose. A volte sento di aver sprecato più di due anni e mezzo della mia vita a rincorrere un tesserino in pelle di stagista che finora ha avuto l’unico merito di farmi entrare a scrocco a una mostra di Hiroshige e al Romics del 2010. Il resto è nebbia, e tanta tanta noia. Io che non mi annoio mai, perché ho la mente che non si ferma mai. Ma vedo male. Vedo rosso. E allora sto fermo, tranquillo, come un semaforo. Resto un ghiro ripieno. Che se mi risveglio toro son falli Fernet.

Bianco su nero

2 Dic

Lo metto nero su bianco, anzi bianco su nero. Dedicato a qualcuno, esclusi tutti gli altri.

 

 

Amarcord blues

24 Set

Ripenso a un anno fa, al mio periodo di stage in quello che avevo definito il giornale dei sogni. L’avevo chiamato così perché si stava bene, mi sentivo bene, si facevano buone cose. Oggi credo ci si stia ancora bene, ci si senta ancora bene. Che si facciano ancora buone cose, invece, lo so per certo. Perché a volte li seguo, quei burloni, ma sempre a debita distanza. Con loro ho un contratto di collaborazione della durata di anno. E sta per scadere. Quell’anno è quasi finito. E io ripenso a un anno fa, al mio periodo di stage in quel giornale dei sogni. Poi penso a oggi, e capisco che il sogno sarebbe piazzarci su un pezzo col mio nome. Farlo davvero. Sentire che c’è un mondo al di là di questo limbo avvilente. Percepire che appartengo ancora almeno un po’ a quel posto di carta in cui si stava bene, mi sentivo bene, si facevano buone cose.

Invece sto qui a rimuginare su quanto sia difficile farne parte, su quanto inserirsi con un proprio articolo corrisponda a un’impresa bella e buona. Ci vorrebbe un piccolo scoop personale, una notizia tascabile ma che faccia scalpore. Niente roba di seconda mano, che sennò rischi di passare per scemo. E a ragione. E’ da scemi pensare che un giornaletto, bello ma grosso quanto un chihuahua nano, possa pagare l’ultimo arrivato per notizie che un qualsiasi redattore stipendiato potrebbe trovare su Google per poi rimescolarle a piacimento. E’ altrettanto da scemi pensare di farsi largo con interviste in esclusiva a illustri figuri che lasciano scritto su Facebook il proprio numero di cellulare, e che quindi chiunque potrebbe contattare. I pochi soldi che girano sono destinati a loro, i redattori stipendiati (forse). I collaboratori vengono dopo (sempre forse), e nell’attesa non possono far altro che guardarsi intorno, all’eterna ricerca della sacra notizia. Per poi ritrovarsi con le mani vuote e con le tasche ancor di più. Ché quel poco che trovi lo capitalizzi con un grazie e po’ di soldi del Monopoli. E allora ti volti, ti volti un’altra volta. Ripensi al pieno di un anno fa e al vuoto di oggi. E ti riscopri a giocare a trova le differenze immerso nel tuo amarcord blues.

L’unica cosa che conta

1 Set

La tv mi fa nostalgico. E come direbbe Cetto La Qualunque, Dadadà non c’entra una beata minchia. Non è nemmeno perché ormai quella scatola proietta-cazzate è diventata per me una coinquilina invisibile, e allora ritrovarmela ogni tanto lì sul mobile, neanche fosse tornata da una crociera esotica, mi fa ricordare i tempi di Mazinga e di quel gran pezzo di Lady Oscar. No, non per quello. La nostalgia mi è arrivata, leggera ma improvvisa, per via di un promo che sta circolando da giorni su di un film che mamma Rai ha messo in caldo per il nostro tiepido autunno.

E’ che io Fortapàsc me lo sono già visto. Ero ancora nel Paese dei Polpacci, a sognare un futuro incerto con felicità a momenti. Erano i tempi della scuola di giornalismo, tempi che oggi sembrano quelli di Jurassic Park. Non del film, proprio la preistoria. E invece è passato poco più di un anno. Eravamo nella camera della Silente, la collega che avrebbe tanto da dire, coinquilina mia e dell’amico Invasato. Immaginavamo un avvenire avventuroso, fatto di tanto impegno e di altrettante parole. Abbiamo tremato nel caldo di quel residence, di fronte al sacrificio di una persona che credeva nel giornalismo e nell’uomo. Soprattutto nell’uomo. Che poi è l’unica cosa che conta.

Il tempo ci sta dicendo che invece per noi c’è ancora tempo. Che per noi il tempo di quel tempo, quello dell’impegno e delle altrettante parole, non è ancora arrivato. Ma noi continuiamo a sognare il nostro futuro incerto con felicità a momenti, a credere nel giornalismo e nell’uomo. Soprattutto nell’uomo. Che poi è l’unica cosa che conta.

Parole sante

26 Ago

Mi sento come un bambino. Dopo l’esame da professionista, dopo l’illusione di un contratto che non porta a nulla, dopo il fascino irresistibile di un’estate dura a morire nemmeno fosse Bruce Willis, provo a muovere i miei primi passi nel mondo del lavoro. Proprio come un bambino. Che poi non sono davvero i primi. E’ che ormai che è arrivata l’ora di fare sul serio, di darsi una botta di defibrillatore e vada come vada. Ora passata.

E’ così che ho preso contatto con la sede locale di un noto partito nazionale, uno di quelli di peso. No, non sono in cerca di raccomandazioni. Né ho intenzione di fare body building mettendomi a sollevare qualche scalda-poltrona di Montecitorio. Continuerò a camminare con le mie gambe fino a che l’esasperazione e il bisogno impellente di denaro non me le taglieranno di netto. Ho pensato di propormi per l’ufficio stampa di quel partito. E sono partito anch’io. Dal basso. Dal basso più basso. Da quello che nelle scuole di giornalismo considerano il fallimento più grande. Chi esce da quegli istituti sforna-cronisti-disoccupati può vantare di aver avuto una formazione da giornalista vero. Sa scovare la notizia (si spera) e la sa raccontare (si spera), sa usare la penna (si spera), ma soprattutto il cervello (aspetta e spera). E l’ufficio stampa è tutto tranne questo. E’ il riportare notizie precotte assecondando l’ente o l’azienda per cui si lavora. Si diventa cronisti-vetrina, un po’ come le puttane olandesi, con in mano un tablet made in China al posto del classico vibratore rotante a doppia punta.

Ma non è un problema, anche se un problema c’è. Il problema è che c’è un problema nel problema. E che problema! Mi sono fatto passare i contatti dei vertici di partito da un ragazzo che ha già un ruolo di responsabilità tra i giovani adepti. Ho avuto nomi, cognomi, numeri di cellulare. E un monito che non lascia scampo. C’è già un addetto stampa, ma è giusto che ti dica anche un’altra cosa: sono tutti incarichi non retribuiti.

E meno male che noi giornalisti campiamo d’aria e di Spirito Santo. Meno male che siamo automi senza lo squallido bisogno di mangiare che avete tutti voi subdoli umani. Meno male che non abbiamo un mutuo da pagare, perché tanto non lo possiamo nemmeno chiedere, se non per far sganasciare quei poveri banchieri frustrati dalla crisi. Meno male che noi abbiamo comunque un futuro. Un futuro anteriore. Il nostro posteriore era già occupato.

Ho un tarlo nella testa

13 Ago

Stanotte andrò a letto con un tarlo nella testa. Roba che se il mio cervello fosse fatto di legno mi risveglierei con il vuoto cosmico dentro il cranio. Stanotte andrò a letto con una convinzione, quella che qualcuno ce l’ha con me. Qualcuno con cui ho avuto a che fare circa tre anni fa. Qualcuno che KronaKus conosce bene, perché in fondo è di suo “padre” che stiamo parlando. KronaKus sono io. KronaKus però è soprattutto un personaggio, un alter ego. KronaKus (il pupazzo, non il ragazzotto che sta dietro le quinte) è nato nel suo grembo. Nel grembo del Capo. Il suo primo datore di lavoro. Ok, facciamo il suo primo datore di qualcosa che in tre anni non ha ancora trovato una definizione. Soldi non ne ho praticamente visti, e che fosse giornalismo in senso stretto la scientifica non l’ha ancora appurato.

Bene. Anzi male. Perché sembra che il Capo mi odi. Prima era un sospetto, ora è diventata una certezza. O se non mi odia crede almeno di avere ragione di ignorarmi. Sono tre volte che lo incrocio per la Baia delle Zanzare. Mai un saluto. Le prime due ho pensato non mi avesse visto. Da lui nemmeno un cenno, ma allo stesso tempo nemmeno uno sguardo. La sua ragazza invece mi saluta. E’ una mia compagna delle elementari, e carina carina quando ci si vede un ciao accompagnato da un sorriso me lo concede. Da piccoli non avevamo nemmeno poi tanta confidenza. D’altronde all’epoca io ero poco avvezzo alla socialità, ero il classico bambino tranquillo tranquillo. Troppo tranquillo. Mi chiamavano Camomillo. Il tempo è passato, le cose sono cambiate. Io oggi sono un’altra persona. Non sono un animale da palcoscenico, non è nella mia natura, ma sono diverso da una volta. Oggi socializzo. Adoro parlare con la gente. E adoro anche solo salutarla, o farmi salutare. Ma il Capo no. Lui non vuole farlo.

Non è la tipica paranoia della notte. Stasera l’ho incontrato per ben due volte, e alla seconda mi ha addirittura guardato negli occhi. Dritto negli occhi, o quasi. E’ stato un lampo, una cosa molto furtiva. Ma lui mi ha visto, e io ho visto lui. Soprattutto ho visto che mi ha visto, e questo fa tutta la differenza del mondo. Perché è caduto anche l’ultimo muro: non è che non mi veda, non mi caga proprio.

C’ho riflettuto parecchio, e se posso dirla tutta la cosa mi urta abbastanza. Non il doverci riflettere, ma l’immotivata assenza di un cenno, la mancanza della più semplice delle cordialità. Un ciao (seppure certi motorini non vadano più di moda). Anche un ciao stronzo, volendo. Sarebbe già più gradito. Avrebbe già più senso.

Siamo diversi, e questo non c’ha mai permesso di avere una vera empatia. Personalmente ho vissuto come qualcosa di bizzarro il fatto che il mio Capo fosse uno della mia età, uno che fino a pochi anni prima lo vedevo girare per la mia stessa scuola. Ma soprattutto è la diversità ad averci separato alla nascita di un rapporto di presunto lavoro che difficilmente si sarebbe evoluto in qualcos’altro. Che so, magari in un’amicizia, o nel semplice piacere di fare due chiacchiere extra-(presunto)lavoro davanti a un caffè che non fosse quello della macchinetta della redazione. Abbiamo idee politiche opposte, ma soprattutto ha un modo di intendere la vita che è l’esatto contrario del mio. Tutto più che legittimo, ma evidentemente tanto basta a negarmi il saluto. Lui è il classico uomo d’affari, il self-made man con il culto dell’imprenditoria intensiva, e che non disdegna il salto (già fatto) nei palazzi della politica. Lui si ammazza di lavoro, io rischierei di ammazzarmi di noia se non fosse che ho più interessi di uno strozzino.

Ci sono diversità che mi fanno venire l’orticaria, atteggiamenti a cui non riesco a trovare una ragione d’essere. Ma il bello di me è che li so accettare. So soprassedere, purché ci sia un rispetto reciproco. E salutare è sinonimo di rispettare. Ma forse lui ha capito che non sono della sua stessa sponda. Ha capito che anche se ormai questa maledetta Baia gira intorno ai soliti due o tre Machiavelli di turno, io, il cronista nato dal suo grembo di mammo, giro in una direzione completamente opposta. Sono una lancetta con il vizio dell’antiorario. Prima o poi qualcuno mi farà passare un brutto quarto d’ora.

Che siamo diversi l’avrà capito quella volta che l’ho fatto incazzare. Mi occupavo del suo sito, e avevo messo in evidenza una notizia con le dichiarazioni di uno dei più grandi nemici della nostra giunta. Non la voglio nemmeno vedere quella faccia da cazzo, aveva detto. Così ho tolto la spunta, sono stato costretto a metterla in secondo piano. Ma va bene. Diciamo che va bene. Il Capo è il capo, la gerarchia delle notizie la detta lui, nonostante il fatto che la loro rilevanza dovrebbe venire prima delle ideologie indigeste.

Magari il punto non è nemmeno questo. Magari si è sentito tradito quando l’ho mollato su due piedi non appena ho saputo di esser stato selezionato per la scuola di giornalismo. Ma io alla sua promessa di farmi fare il praticantato non ho mai creduto, così ho seguito la mia strada. Aveva mosso mari e monti con la sua commercialista per capire come farmi avere un tesserino senza spendere che pochi spiccioli. Ma io non mi sono mai fidato. Mi deve ancora trenta euro. Trenta miseri euro. Figuriamoci se mi potevo fidare. Nel frattempo mi son fatto le ossa con professionisti veri. Professionisti non soltanto per via del tesserino, ma per l’esperienza. Quando me ne sono andato il Capo mi ha addirittura detto che se avessi imparato qualche trucchetto interessante a livello giornalistico glielo avrei dovuto comunicare. Sono stato fuori, ho fatto stage in redazioni importanti. Non mi pento. No, non mi pento. Nemmeno se non ho ancora uno straccio di lavoro. Non sputo mica su di un piatto che tra tasse e affitti mi ha fatto perdere non poco denaro, ma che perlomeno non mi ha fatto perdere una cosa ancora più importante della filigrana stessa. Il tempo. Ho fatto la mia scelta. Solo il mio me futuro sa se il mio me passato ha fatto la cosa giusta. Prendo la Delorean e vi mando un telegramma olografico post-datato.

O magari il problema è che sa di questo blog. Sa del sarcasmo di fondo, e magari non lo accetta. Ma questa è un’altra storia. E questa, forse, è davvero la tipica paranoia della notte.

Mi butto (3)

2 Lug

Sottotitolo: Io, fottuto in partenza. Ho appena completato il test d’inglese del Corriere della Sera. Sì, perché non è bastato compilare la domanda online per candidarmi a tutti gli effetti alla sbalorditiva selezione messa in atto dal noto quotidiano. Ci sono più fasi, ma ovviamente non te lo dicono prima. E io mi aspettavo una scrematura sulla base dei millemila curricula che staranno sicuramente ricevendo, non di certo un quiz su internet per verificare l’effettiva padronanza dell’inglese di chi vuole tentare il colpaccio.

Io, da bravo millepiedi omerico, di talloni d’Achille ne ho a bizzeffe. Ma ne ho uno particolarmente grosso e sporgente (no, tranquilli, non siamo ancora saliti in zona inguinale), su cui c’è appiccicata un’etichetta piuttosto eloquente: Ai no spich inglisc vèri uèll. A ognuno il suo. Io ho fatto in tempo a rispondere a 57 delle 65 domande a cui mi hanno sottoposto nell’arco di mezzora. Con la linea internet a passo di moviola che mi ha rallentato un po’, e che soprattutto credo non mi abbia permesso di inviare l’ultima risposta perché nel frattempo era suonato il gong. Quindi facciamo 56. Ma per fortuna non ero solo. Eh già. Accanto a me avevo la più aggressiva delle zanzare del quartiere, probabilmente l’insetto regina di questa fottuta Baia. Ha provato a suggerirmi, ma non è riuscita ad andare oltre il solito squallidissimo ronzìo.

Scrivo queste righe un po’ affranto. Un po’ digito e un po’ mi gratto. Non è scaramanzia, a quella mi sono sempre affidato poco. E’ quella stronza di una regina che mi ha lasciato il ricordino. Ma al di là di test e monarchie ronzanti, so di aver fatto il massimo che potevo. In un primo momento ho pensato di farmi aiutare in tempo reale dalla mia cugina argentina, che di mestiere insegna inglese e fa pure traduzioni per le aziende. Però, vuoi per il fusorario vuoi perché lei non sa quasi nulla di italiano, ho evitato di mettermi su Skype a spiegarle di volta in volta il senso della frase da tradurre. Così ho passato il pomeriggio a ripassare una lingua che conosco per sentito dire o poco più, a rinforzare una base in carta velina su cui poi ho cercato di costruire un cazzo di grattacielo. Infine ho sfidato la sorte e le giuste pretese del Corriere, dando il via al test con un occhio sui quesiti e uno su Google Translate, utile come una bandiera della pace a casa Gheddafi.

Ora sono qui. Aspetto il verdetto del mio test con un mezzo ghigno stampato in faccia. So già come andrà a finire, è sempre stato un tentativo disperato. L’importante è che non mi disperi io, perché domani è un altro giorno. Speriamo non di merda.

Poltrona a dondolo

30 Giu

Mi dondolo sulla mia poltrona. Il mio amico di sempre mi ci prende pure in giro. Dice che è la poltrona del direttore, che da lì sopra sembro davvero il signor Burns dei Simpson. A suo dire mi manca soltanto di congiungere le mani pronunciando la parola eccellente, e poi sono davvero lui. Io finisce che mi guardo allo specchio e poi mi consolo. Quantomeno non sono ancora così stempiato.

Anche perché il problema non sono io, ma questa maledetta poltrona. Non è la mia faccia da pseudo-direttore bavoso, ma il culo che si poggia sopra questo morbidissimo porta-chiappe. E’ la mia reggia, il mio feticcio. La mia ragazza mi deride ogni volta (sì, pure lei) tanto sembro calato nella parte. E dire che è un suo regalo. Ma in fondo hanno ragione loro, lei e il mio migliore amico. In questo schienale io sprofondo come fossi il boss di un’azienda grande e prospera. Perché lo dico? Se mi vedeste ora non avreste bisogno di farmi questa domanda.

Eppure così non va. Mi gongolo, mi dondolo, mi gingillo (non è come sembra). Vivo ancorato alla poltrona e allo schermo che ho davanti, giorno e notte, fino a far incazzare mia madre che ormai non ricorda più nemmeno come sono fatto da in piedi, e mi crede alto poco più di un metro e venti. Tutto questo mentre all’orecchio mi arrivano verità che non sono più mie, quelle di un mondo che è fatto di movimento, di tentativi estremi. Storie di gente che osa, che non pensa di trovare uno sbocco soltanto inviando curriculum e aggiornando la pagina della posta in modo convulso nella speranza di ricevere uno straccio di risposta. Stando rigorosamente col culo appoggiato a questa cazzo di poltrona a dondolo, s’intende.

Un’amica, la stessa che mi ha trovato alloggio nella Città delle Pizze Gommose nel periodo del mio primo stage, mi ha scritto che sta per partire. Voleva da me i contatti del quotidiano con cui ancora starei collaborando, almeno in teoria. Le ho passato l’indirizzo del direttore e quello degli altri capi. Chissà che almeno a lei non servano a qualcosa. Il suo obiettivo è piazzare qualche pezzo come corrispondente dalla sua meta incandescente. Io invece sono ancora qui che invio proposte assurde pur di ricordare loro  il fatto concreto del mio esistere, che possono farmi lavorare, o che quantomeno potrebbero finalmente farmi avere la cifra che ho già maturato. Tentativi che puntualmente non ricevono nemmeno uno straccio di no. Spero per lei che abbia più fortuna, d’altronde si sta per giocare una buona carta. Buonissima. Perché la ragazza non sta scappando da Malincònia in cerca di fortuna. Lei la fortuna se la sta creando a costo di rischiare la pelle. Lei è in partenza per il Kosovo come giornalista embedded. Lavorerà direttamente dal campo, a stretto contatto con il contingente militare italiano in loco. Mentre io continuo a dondolare sulla mia poltrona in attesa di un motivo per pronunciare la parola eccellente.

Mi butto (2)

27 Giu

E se fosse questa la svolta per il mio futuro? E se il mio domani fosse proprio al Corriere della Sera? E se fossi costretto a trasferirmi nella terra del business e dei pisapii? Non bramo Milano, ma chissà che Milano non brami me. Un aspirante cronista squattrinato con la sindrome del blogger. Un giornalista non praticante, e non soltanto per via della qualifica di professionista ormai raggiunta, ma nell’accezione quasi religiosa del termine. Uno che al futuro non ci pensa mai, a costo di litigare con una fidanzata che invece vivrebbe volentieri dentro la sua sfera di cristallo.

Chissà. E’ che ancora preferisco il vivere al convivere. E’ che tengo ai miei spazi come una monachella ossessionata tiene alla sua verginità. Sennò mi vedrei già pronto pure per la paternità. Devo soltanto imparare a distinguire il pianto di un bambino dal lamento di un gatto in amore. Quantomeno per non infilare i bocconcini Whiskas nel biberon del pupo. E per evitare che crescendo nascano rivalità tra lui e il micio che si ripresentano ogni volta che è l’ora della pappa.

Mi butto

25 Giu

Carramba che sopresa, direbbe una certa Raffaella che, a discapito dei capelli da Maga Magò, il vero legame di parentela deve avercelo per forza con il prode Higlander. Cos’è successo? Semplice: il mondo del lavoro non retribuito (cioè tre quarti del mondo giornalistico) è stato scosso da un annuncio che sembra uscito da un film di fantascienza. E non tanto perché si parla chiaramente di tecnologia, ma perché appare proprio come un fulmine a ciel sereno. Anzi, come uno squarcio di sereno in mezzo a un mare di fulmini.

Il Corriere della Sera ricerca giovani redattori da inserire nelle proprie redazioni giornalistiche. Le persone parteciperanno a progetti di sviluppo e di crescita della testata, offrendo un valido contributo anche multimediale. E’ quanto si legge in un link a cui si può arrivare anche dalla stessa home page dell’edizione online del noto quotidiano.

Io sono alla disperata ricerca di una soluzione. Guardo il mio futuro e vedo nebbia e ancora nebbia, che varia secondo scale di grigio che comunque non lasciano nemmeno trapelare l’illusione del colore. Regna ancora la sensazione di una prospettiva che non c’è, l’idea che tra l’oggi e il domani ci sia un anello ancora mancante. Che magari potrebbe essere questo, un’esperienza in una delle più grandi realtà giornalistico-editoriali italiane. Una cosa che puzza di tirocinio a scrocco, e che quindi ha lo stesso odore di tutto il contorname. Ma Raffaella non si smentisce mai, e una carrambata è pur sempre una carrambata. Sono anni che il gruppo Rcs non attiva stage, mentre gli studenti delle scuole di giornalismo farebbero a cazzotti per trascorrere un paio di mesi tra le quattro mura delle sue tante redazioni. E questa iniziativa ha il sapore tipico della sorpresa. Una sorpresa a metà, almeno per me. Perché all’esame di abilitazione professionale avevo conosciuto una persona che lavora già nell’azienza, e che mi aveva accennato al fatto che il Corriere volesse approdare su iPad con un progetto piuttosto ambizioso. Specificando, però, che non sarebbe stato facile approfittare dell’inevitabile allargamento dell’organico (si, il personale ormai si chiama allo stesso modo della “monnezza”..), vuoi per i tanti in lista d’attesa e vuoi perché siamo in Italia, e si sa che spesso entra chi deve entrare. Chi si vuole far entrare. Chi è stato suggerito di far entrare.

Forse l’annuncio si riferisce proprio a questa iniziativa. E forse, dico forse, è soltanto uno specchietto per le allodole per chi si illude di poter finalmente lavorare in un grande giornale. Ma io no. Io non mi aspetto granché. Però so una cosa. Questa volta mi butto e vada come vada.