Un bel po’ di cose. Dicono: “Così si fa”. O perlomeno così dice Luciano. Luciano Ligabue. L’uomo che tra un paio di settimane mi riporterà qui, a Milano. Perché intanto, nel frattempo, io me ne sarò già andato. Avrò già lasciato la città meneghina, in cerca di qualcosa di nuovo. Un nuovo chiamato mare. Un nuovo chiamato gatti. Un nuovo chiamato amici. Un nuovo chiamato famiglia. Un nuovo chiamato nuovo, ma che di nuovo ha davvero poco. E, soprattutto, non ha niente a che vedere con il lavoro.
Il lavoro mi ha tradito. Il lavoro mi ha lasciato. E io, per un perverso giro della logica devo lasciare a mia volta qualcuno. Qualcosa. Milano. Un posto con il quale non credevo che avrei mai provato empatia. Un posto che invece mi resterà sempre nel cuore, perché qua i cuori sono molto meno grigi di quanto si pensi da fuori. Ma questa è un’altra storia. La storia che vi voglio raccontare oggi non è quella di un addio, ma di un arrivederci. Arrivederci, Milano. Non credere di aver chiuso con me. Non t’illudere. Qua io lascio affetti e progetti, progetti e affetti. Spesso, cosa bellissima, le due cose riescono addirittura a coincidere.
Ma intanto ti devo salutare, o mia bela Madunìna. Sono costretto a prendermi una pausa di riflessione. Per questo, da amante un po’ triste e un po’ deluso, sto già facendo i bagagli. In camera, in questa camera che sono in procinto di abbandonare dopo quasi due anni, sono circondato di scatoloni da riempire, sequestrati dal magazzino del Carrefuor vicino casa come fossi un barbone. Con la differenze che quelli, poveracci, una casa non ce l’hanno proprio. Io la mia la sto per mollare, dicevo, e me ne sto per tornare a quella vera. Quella delle origini. Quella dei miei. Arrivederci, Metropoli a Gas. La Baia delle Zanzare è già lì che mi aspetta. E così il mare. E così i gatti. E così gli amici. E così la famiglia. E così quel nuovo che tanto nuovo non è.
Intanto raccolgo, seleziono, organizzo, inscatolo. E ho messo via un bel po’ di cose. Dicono: “Così si fa”. Tra quelle cose, chili e chili di carta prelevati dai cassetti della redazione. Così, rovistando, oggi ho ritrovato le stampate delle prime pagine curate da me. Ho riletto i miei primi titoli, di cui andrò sempre fiero anche a costo di apparire immodesto. Ho ritrovato le correzioni in rosso, sarcastiche, ficcanti e per questo efficaci di Lina Insu, la donna a cui devo questa mia prima vera opportunità di lavoro. E ho ritrovato, lì in mezzo, l’entusiasmo che provavo nel fare certe cose. Nel gestire le mie sezioni. Nello scrivere pezzi sulle grandi magie della tv e dello spettacolo in genere. La soddisfazione di potermi relazionare con dei collaboratori, mentre una volta il collaboratore ero io. Una volta, proprio come adesso. La ciclicità del destino è davvero ridicola e beffarda.
Mi sono ripassate per le mani le stampate degli scambi epistolari con la photoeditor della stanza accanto, che mandarsi le mail era meno faticoso che alzare il culo e andare di là oppure gridarsi a vicenda come fossimo in osteria. Sono ripassati sotto i miei occhi quei timoni fatti e rifatti. I fogli su cui mi segnavo le idee su come sviluppare i temi del mese, puntualmente cassati da chi, sopra di me, aveva già venduto la sua anima di giornalista ai fottuti diavoli del marketing.
Ho ritrovato, lì in mezzo, quella parte di me che tra una corsa e l’altra si divertiva a fare, e che ha voglia di fare ancora. Milano, non credere di aver chiuso con me. Perché io, con te, non ho di certo finito.
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Non avevano niente da fare..