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Tira più un pelo di social che un carro di cadaveri

20 Feb

La newsletter del Corriere.it delle 12 apre con l’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook. Mandate un messaggino agli ucraini per comunicargli lo scoop, che quelli stanno sempre a cazzeggia’ coi petardi.

Fa molto più male

8 Apr

Il silenzio stampa uccide. Il giornalismo italiano si è messo il bavaglio per rispettare i quattro colleghi trattenuti in Siria, perché parlare potrebbe compromettere le trattative in corso. Ma sì, il silenzio stampa uccide. Uccide chi attende, senza ammazzare il tempo che nel frattempo scandisce l’attesa. Perché chi aspetta notizie ha l’impressione che le ore non scorrano. Che non si muovano. Come fossero mare, sì. Mare in foto.

Io fremo. Fremo dalla voglia di sapere che succede. Dalla voglia di sentirmi dire che sono in salvo. Tutti. Per me questa non è la classica notizia. Non è il solito strillo da prima pagina. Purtroppo non è la prima volta che accade. Non è la prima volta che dei cronisti pieni zeppi di coraggio s’inoltrano oltre il consentito e finiscono nelle mani sbagliate. Ma questa, sì, in un certo senso è una prima volta. Almeno per me.

Conosco uno dei quattro. Lo conosco di persona. E quand’è così fa molto più male.

EUROTeleKronaKus (5).. O no?!

30 Giu

Ho fatto il pigro. Anzi, ho fatto lo stanco. Anzi, ho fatto quello che era appena tornato da un lungo viaggio che potrebbe cambiargli la vita. No, niente Tibet. Ero da tutt’altra parte, ma ne riparlerò. Fatto sta che al calcio d’inizio della semifinale contro la Germania dovevo ancora sceso dal treno. L’Italia in campo, e io ancora sul Fecciarossa intento ad attraversarla. Appena tornato ero esausto. Scarico. Io. Io e il mio iPhone. Sono partito con il caricabatterie. Cioè, sì, forse. Sono partito con il cavo usb che fa anche da caricabatterie, ma senza la punta, lo spinotto che si attacca alla corrente. Me ne sono accorto all’andata, ma comunque troppo tardi. Ho fatto giusto in tempo a scrivere questo status su Facebook, per poi pentirmene:

Il Fecciarossa ha due vantaggi (e quelli soltanto). Il primo è che puoi ricaricare il telefono mentre fuori ti cambia il paesaggio. Il secondo è che ti alleggerisce con convinzione il portafogli. E con quest’afa meno zavorra hai e meglio è. O no?!

Poi sono andato per caricare, ma ho visto che mi mancava un pezzo. Che mi mancava il pezzo. Un po’ di panico, poi l’idea di supplicare per un qualsiasi tipo di aiuto alla reception dell’hotel in cui già avevo prenotato una singola. Una singola bollente e abitata da zanzare che non ti pungono, ti impiantano direttamente un nuovo capazzolo. Alla fine me lo son fatto caricare tramite usb dal gentilissimo receptonist anglo-qualcosa, che dopo aver controllato se qualche altro cliente incline alla tontolaggine avesse per caso lasciato lì un caricabatterie (intero) per iPhone. Niente da fare. Allora ha usato il portatile dell’hotel, anche se c’ha messo tanto, troppo, e alla fine non si è caricato del tutto. Sicché al ritorno era già scarico. Lui. E io. E non mi andava proprio di stare attaccato alla presa per scrivere minchiate mentre i ventidue nonpiùalleatichelaguerraèfinitadaunpezzo erano intenti a rincorrere un testicolo troppo cresciuto.

Adesso però mi tira il culo. Qualcuno mi ha fregato il “lavoro”. Qualcuno che farebbe molto ridere, non fosse che ci sarebbe da piangere.

A cena col nemico (3)

6 Mag

Tornando dalla palestra trovo sempre qualche sorpresa. Squilli, chiamate, messaggi, mail. Il mio pacco si chiama iPhone, e la regola dello scavicchi ma non apra non vale mai per me. Devo aprire per forza.

Due giorni fa ho trovato l’ennesima chiamata di quelli del giornaletto locale di cui sono direttore. Non so, ultimamente sono nervoso. Così, senza motivo. Sono un cronista isterico. Immotivatamente isterico. Mi fa così. Pazienza. Fatto sta che trovare quella telefonata mi ha dato sui nervi. Sarà che tutta la trafila per la pubblicazione del primo numero si è rivelata davvero estenuante. Sarà che ci si son messe pure le Poste a rallentare i lavori. Sarà che sono un cronista isterico. Punto.

Alla sera ho richiamato, ma ho mascherato sapientemente il mio disappunto. Che poi ero pure di corsa. Ho cenato un po’ di fretta, poi dovevo andare al cinema a vedere l’ultimo scialbissimo Woody Allen. Sì, ho mascherato. In fondo non ci si può incazzare per una chiamata, e finché non si vedono i primi soldi devo starmene buono anche se ho le mie cose.

“Ohi, KronaKus!”
“Ciao. Dimmi tutto..”
“Allora.. Sono stato in tipografia, oggi. Abbiamo sistemato le ultime cose. Il logo delle Poste, poi, lo mettiamo un po’ più piccolo. C’hanno detto che l’importante è che si legga il numero dentro, perciò..”
“Bene..”
“Sì.. E.. niente. Poi ti cercavo per chiederti un’altra cosa..”
“Sì..”
“Mi diceva il boss, se tu sei d’accordo, di mettere il tuo nome un po’ più in grande, magari sotto la testata..”
“Ah.. Ah! Sì! certo!”
“Sai.. A noi fa bene far vedere che abbiamo un caporedattore, e almeno si vede che.. insomma.. che c’hai lavorato anche tu, cavoli! Sennò lì in piccolo..”
“Nella gerenza, dici..”
“Sì.. lì.. Insomma, lì non ci va a leggere nessuno, dai..”
“Sì.. Certo.. Per me va benissimo! Anzi.. grazie per averci pensato. Davvero.”

Sono un cronista isterico. Il guaio è che sono affetto da un’isteria preventiva, e che poi si rivela pure immotivata. Un po’ come tutte le cose preventive, insomma. Sono il Bush delle telefonate. Trovo una chiamata e dichiaro guerra al mondo. Non va mica bene.

Credo di averlo ringraziato tre o quattro volte. D’altronde non erano tenuti a farlo. Non erano tenuti a mettere il mio nome lì in bella vista. Certo, hanno il loro tornaconto. Fanno vedere ai loro potenziali (e)lettori che fanno le cose sul serio, che hanno addirittura un caporedattore. Ok, voleva dire direttore responsabile. E io non gli ho mica ricordato che dato che si pubblica qualcosa un direttore responsabile c’è per forza, e che sbandierarlo a caratteri cubitali non è dimostrare di fare le cose in grande, ma di farle in regola. Certo, non tutti i loro compaesani ne saranno al corrente. Non mi aspetto mica che il contadino che abita di fianco al mio amico scurrile sappia che per legge ci vuole un direttore. Ma al di là di questo ho vissuto la cosa come un atto di dolcezza da parte loro. Sì, dolcezza. E riconoscenza. Ho seguito il progetto sin dal concepimento. L’ho visto crescere dentro il loro grembo accidentato. Li ho aiutati a capire se fosse maschio oppure femmina. Gli abbiamo dato un nome insieme. Abbiamo deciso come impostare i suoi primi sei mesi di vita (è un semestrale, sì). E adesso mi fanno sentire un po’ il papà di questa cosa che ancora non è nata, ma pare sia questione di giorni.

Vincere le elezioni sarà pure una questione di culi e di sorrisi seducenti, ma intanto qua quello con il culo sono io. Non è facile trovare qualcuno che pensi a certe cose. Qualcuno che voglia in un certo senso valorizzare il tuo lavoro. Ora ho un motivo in più per essere un po’ meno isterico. E di smettere di picchiare selvaggiamente su questi tasti, come mi hanno appena fatto notare.

E meno male che ci sono loro. Perché il Cielo, nel frattempo, si è proprio incazzato.

Bellicosì

26 Nov

Vietnam, Addestramento estremo 2, Mille modi per morire. Carini i titoli dei programmi tv su cui devo scrivere oggi pomeriggio.

Stasera voglio farmi una pizza con Gandhi e Winnie The Pooh.

Black bloc notes

25 Ott

E’ stata una settimana davvero poco enigmistica. E tantomeno enigmatica. A me è sembrato tutto molto chiaro. Perché è chiaro che così non va. Così chiaro che mi viene da guardare il mio tesserino da giornalista e da domandarmi per quale fottutissimo motivo non abbia preferito fare lo spazzacamino. Magari adesso non mi sentirei parte integrante di questa farsa. Magari ora vedrei le cose con più distacco. Invece no. Oggi mi tocca stare qui a prendere appunti sul mio block notes nero, a scaricare il marcio della settimana come il commesso di un supermercato (possibilmente senz’aria condizionata, grazie) che ogni tot butta via le cose scadute dal bancofrigo.

La chiamano informazione, ma a me sembra essere più azione senza informare. Notizie ridondanti sparate con pistole dal mirino impeccabile, nel nome di un diritto di cronaca smarrito tra capri espiatori trovati sul campo e impulsi da voyeur mancati. Mancati, ma poco così. Sì, oggi sono bacchettone. Anche perché ho un sassolino nella scarpa che mi devo togliere (mi devo togliere il sassolino, non la scarpa). Non capisco se il bloc notes sia stato annerito dalla cronaca o se sia stato il bloc notes ad annerire lei. Se siano i fatti a essere così cupi, o se siano i loro narratori ad aver scurito ad arte tutto quanto.

Ho passato la settimana a guardare telegiornali che sono più simili ad avvoltoi che a piccioni viaggiatori. E dire che dovrebbe essere il contrario. Si sono messi a contare anche i peli del culo di quei delinquenti dei black bloc, hanno fatto le pulci a ogni loro singolo passo. Fino a che le ragioni dei manifestanti pacifici non sono diventate marginali. Un surplus. Una notiziola da mettere in coda al servizio. Qualcosa di nicchia, alla stregua di un’indiscrezione, talmente di nicchia da finire nel dimenticatoio nel giro di mezza edizione. Che cosa straordinaria. Due giorni fa Giletti si domandava ancora se i tipi incappucciati fossero guerriglieri oppure semplici criminali. Come se non si sapesse. Come se la protesta, quella vera, andata a puttane come il più tradizionalista dei politici, non avesse più nessuna importanza. E ci sono cascati tutti, tutti i colleghi dei tiggì. Gli stessi che ci hanno proposto fino allo sfinimento le immagini del massacro di Gheddafi, come fosse il trailer del nuovo film splatter di Sam Raimi. La Casa 8 – Libidine Libica. Roba da tenere lontano dalla portata dei bambini, gli stessi bambini seduti a tavola all’ora del Tutti zitti, c’è Mentana (sì, c’è cascato pure lui). Nel ’90 quattro illuminati si sono inventati la Carta di Treviso per tutelare i minori, ma lasciando ai minorati la direzione delle varie testate. Gente che fa tutto questo e che lo spaccia per un preciso dovere, come se la sete di vendetta del popolo libico non la si potesse raccontare a parole senza mandare in onda quelle immagini cruente a mo’ di tormento(ne) estivo. Come se la descrizione della violenza non bastasse a rendere l’idea. No, meglio dare tutto in pasto al popolino senza prima metter via la merda. Mettiamo in piazza la morte di un uomo, anche se forse (forse) non era più tale (un uomo). Facciamo di quel video sanguinolento una sorta di disco rotto da suonare a ripetizione, come se dopo la mancata pubblicazione delle foto del cadavere di Bin Laden si avesse un debito morale da ripagare allo spettatore.

Nemmeno io credo se non vedo, ma non credo di aver voluto vedere quello che ho visto. Non credo nei cadaveri come trofei. Non credo nell’estetica deviata dei morti in vetrina. Vivo di sensazioni, non di sensazionalismo. Sono per lo notizia nuda e cruda, ma non gradisco chi mi prende per lo stomaco, per le palle e tantomeno per il culo. Non legittimo la violenza sacrificando la mia pietà sull’altare del dio catodico. No. Io non sono Mentana. Io non sono Giletti. Ma questa è un’altra storia.

Mi butto (3)

2 Lug

Sottotitolo: Io, fottuto in partenza. Ho appena completato il test d’inglese del Corriere della Sera. Sì, perché non è bastato compilare la domanda online per candidarmi a tutti gli effetti alla sbalorditiva selezione messa in atto dal noto quotidiano. Ci sono più fasi, ma ovviamente non te lo dicono prima. E io mi aspettavo una scrematura sulla base dei millemila curricula che staranno sicuramente ricevendo, non di certo un quiz su internet per verificare l’effettiva padronanza dell’inglese di chi vuole tentare il colpaccio.

Io, da bravo millepiedi omerico, di talloni d’Achille ne ho a bizzeffe. Ma ne ho uno particolarmente grosso e sporgente (no, tranquilli, non siamo ancora saliti in zona inguinale), su cui c’è appiccicata un’etichetta piuttosto eloquente: Ai no spich inglisc vèri uèll. A ognuno il suo. Io ho fatto in tempo a rispondere a 57 delle 65 domande a cui mi hanno sottoposto nell’arco di mezzora. Con la linea internet a passo di moviola che mi ha rallentato un po’, e che soprattutto credo non mi abbia permesso di inviare l’ultima risposta perché nel frattempo era suonato il gong. Quindi facciamo 56. Ma per fortuna non ero solo. Eh già. Accanto a me avevo la più aggressiva delle zanzare del quartiere, probabilmente l’insetto regina di questa fottuta Baia. Ha provato a suggerirmi, ma non è riuscita ad andare oltre il solito squallidissimo ronzìo.

Scrivo queste righe un po’ affranto. Un po’ digito e un po’ mi gratto. Non è scaramanzia, a quella mi sono sempre affidato poco. E’ quella stronza di una regina che mi ha lasciato il ricordino. Ma al di là di test e monarchie ronzanti, so di aver fatto il massimo che potevo. In un primo momento ho pensato di farmi aiutare in tempo reale dalla mia cugina argentina, che di mestiere insegna inglese e fa pure traduzioni per le aziende. Però, vuoi per il fusorario vuoi perché lei non sa quasi nulla di italiano, ho evitato di mettermi su Skype a spiegarle di volta in volta il senso della frase da tradurre. Così ho passato il pomeriggio a ripassare una lingua che conosco per sentito dire o poco più, a rinforzare una base in carta velina su cui poi ho cercato di costruire un cazzo di grattacielo. Infine ho sfidato la sorte e le giuste pretese del Corriere, dando il via al test con un occhio sui quesiti e uno su Google Translate, utile come una bandiera della pace a casa Gheddafi.

Ora sono qui. Aspetto il verdetto del mio test con un mezzo ghigno stampato in faccia. So già come andrà a finire, è sempre stato un tentativo disperato. L’importante è che non mi disperi io, perché domani è un altro giorno. Speriamo non di merda.

Poltrona a dondolo

30 Giu

Mi dondolo sulla mia poltrona. Il mio amico di sempre mi ci prende pure in giro. Dice che è la poltrona del direttore, che da lì sopra sembro davvero il signor Burns dei Simpson. A suo dire mi manca soltanto di congiungere le mani pronunciando la parola eccellente, e poi sono davvero lui. Io finisce che mi guardo allo specchio e poi mi consolo. Quantomeno non sono ancora così stempiato.

Anche perché il problema non sono io, ma questa maledetta poltrona. Non è la mia faccia da pseudo-direttore bavoso, ma il culo che si poggia sopra questo morbidissimo porta-chiappe. E’ la mia reggia, il mio feticcio. La mia ragazza mi deride ogni volta (sì, pure lei) tanto sembro calato nella parte. E dire che è un suo regalo. Ma in fondo hanno ragione loro, lei e il mio migliore amico. In questo schienale io sprofondo come fossi il boss di un’azienda grande e prospera. Perché lo dico? Se mi vedeste ora non avreste bisogno di farmi questa domanda.

Eppure così non va. Mi gongolo, mi dondolo, mi gingillo (non è come sembra). Vivo ancorato alla poltrona e allo schermo che ho davanti, giorno e notte, fino a far incazzare mia madre che ormai non ricorda più nemmeno come sono fatto da in piedi, e mi crede alto poco più di un metro e venti. Tutto questo mentre all’orecchio mi arrivano verità che non sono più mie, quelle di un mondo che è fatto di movimento, di tentativi estremi. Storie di gente che osa, che non pensa di trovare uno sbocco soltanto inviando curriculum e aggiornando la pagina della posta in modo convulso nella speranza di ricevere uno straccio di risposta. Stando rigorosamente col culo appoggiato a questa cazzo di poltrona a dondolo, s’intende.

Un’amica, la stessa che mi ha trovato alloggio nella Città delle Pizze Gommose nel periodo del mio primo stage, mi ha scritto che sta per partire. Voleva da me i contatti del quotidiano con cui ancora starei collaborando, almeno in teoria. Le ho passato l’indirizzo del direttore e quello degli altri capi. Chissà che almeno a lei non servano a qualcosa. Il suo obiettivo è piazzare qualche pezzo come corrispondente dalla sua meta incandescente. Io invece sono ancora qui che invio proposte assurde pur di ricordare loro  il fatto concreto del mio esistere, che possono farmi lavorare, o che quantomeno potrebbero finalmente farmi avere la cifra che ho già maturato. Tentativi che puntualmente non ricevono nemmeno uno straccio di no. Spero per lei che abbia più fortuna, d’altronde si sta per giocare una buona carta. Buonissima. Perché la ragazza non sta scappando da Malincònia in cerca di fortuna. Lei la fortuna se la sta creando a costo di rischiare la pelle. Lei è in partenza per il Kosovo come giornalista embedded. Lavorerà direttamente dal campo, a stretto contatto con il contingente militare italiano in loco. Mentre io continuo a dondolare sulla mia poltrona in attesa di un motivo per pronunciare la parola eccellente.

Se una guerra può essere giusta

17 Set

“Pensa a quel collega là, che adesso se ne deve andare in Afghanistan, così, da un momento all’altro. Certo che fa proprio una vita da cani! Ora lo sbatteranno sul primo aereo. Poi arriverà là quando ormai sarà tutto finito, e tutte le televisioni del mondo avranno già detto tutto!”. Le parole del Burbero suonavano per quello che erano: imbevute, ubriacate di sarcasmo. E di cinismo.
“Non c’è proprio un cazzo da scherzare”,è intervenuto il Sergente con la voce calma ma ferma. E tutti zitti. Anche chi rideva ai discorsi del Burbero. Che proprio stronzi non erano, perché in fondo immagino corrispondano al vero.

Di sicuro il Burbero non ha il piglio del Sergente. Che di militarismo se ne intende, e non di certo per il nomignolo che gli ho dato io. “Erano tutto volontari”, ha detto lui. “Ma questa guerra era proprio necessaria?”, mi domando io. Ma non glielo chiederò. Me lo terrò per me. Penso mi convenga. E alla grande.