Profugo di redazione

3 Giu

Me lo sentivo, anzi lo sapevo, e adesso è successo davvero. Nella redazione di sport siamo pochi, veramente pochi, perché poche sono anche le postazioni a disposizione. Lavoriamo in una stanzetta. Comoda, accogliente, ma pur sempre una stanzetta. Siamo in cinque. Io, il Caposevizio e altri tre. Più un’omaccione che di postazioni ne potrebbe occupare quattro pure da solo, ma si contiene e si fa bastare la sua. Però siamo pur sempre sei. Sei con cinque postazioni in tutto. Cinque scrivanie, cinque computer, cinque stelìne, cinque paperèle. E mentre in serie A si fa il balletto delle panchine, da noi si fa il balletto delle ferie, tutte rigorosamente concentrate prima dell’imminente Mondiale. Per questo finora me la sono sempre cavata. Ho sempre trovato posto, seppur vagando da un punto all’altro di quella beneamata stanzetta. Ma il gioco è finito: la Coppa del mondo è alle porte, quindi tutti sull’attenti che si deve lavorare.

E io? Io non avrei più un posto dove andare se non mi spostassi in base ai turni dei colleghi. La mattina tutto bene, fino alle 15 30 circa so di avere ancora una “casa”. Poi arriva l’uomo del pomeriggio, amante della maglia rosa e degli sport di squadra fondati sulla difesa. A quel punto mi devo spostare, e lì son falli amari. Perché finisce che devo cambiare stanza, lavorare dalla redazione centrale agli articolo riempitivo sui Mondiali di calcio, fermarmi alla bassa manovalanza di una manovalanza, quella dello stagista, che è già bassa di per sé. Con la promessa che col Caposevizio ci si terrà in contatto per telefono, ma l’unica chiamata che mi è arrivata in questi giorni è quella di un portavoce dell’Italia dei Valori, che tra l’altro si chiama come il personaggio di un fumetto che ho letto di recente.

Invece, restando a contatto con il Caposevizio e i suoi seguaci può capitarmi di meglio, ma soprattutto può capitarmi di più. Perché il problema non è cosa fai, ma quanto fai. Non è tanto la bassa manovalanza quanto la poca manovalanza. E la lontananza fisica da colui che ti può assegnare qualcosa (che poi è quasi sempre il tizio che deciderà se farti collaborare o meno) non fa bene alla salute di chi cerca di ritagliarsi un proprio spazio, di crearsi un margine di manovra, di farsi illudere da quella parola enorme e fumosa che suona come “prospettiva”.

E’ così che mi ritrovo a essere un profugo di redazione. Prima clandestino a causa del sindacato, oggi nomade con l’ordinanza di rimpatrio pronta per fine giugno, quando anche questo stage sarà un capitolo chiuso. Ma lotterò affinché mi rinnovino il permesso di soggiorno. E perché possa provare a diventare qualcuno in questo mare di cronisti anonimi.

2 Risposte to “Profugo di redazione”

  1. Anna martedì, 29 giugno 2010 a 16:44 #

    Leggere della tua determinazione che non irrancidisce,è anche più piacevole del seguire le peripezie di un aspirante cronista.Auguri!

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  2. kronakus venerdì, 2 luglio 2010 a 2:28 #

    determina..che??

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